Sul caso della Banca popolare di Vicenza se c’è chi ha sbagliato è giusto che paghi. E’ giusto che paghi anche chi ha agevolato lo sbaglio o non ha fatto nulla per evitarlo. La magistratura ha mezzi e modi per fare quella chiarezza che tutti auspichiamo, chiedendo contemporaneamente la massima tutela per i risparmiatori e i dipendenti.
Del resto, in questi anni, si ha avuto spesso l’impressione che la Popolare vicentina sia intervenuta spesso per difendere il risparmio e i posti di lavoro in altre banche appesantendo così i propri bilanci: credo che nel difficile puzzle che il magistrato deve ricomporre bisognerà tener conto anche di ciò e di chi sollecitò quegli interventi.
Più di un osservatore ha ricordato che la pesantezza della situazione della Popolare di Vicenza è stata accresciuta dalla riforma sulle Banche Popolari che il governo ha varato sotto la spinta, se non ordine esplicito, delle grandi lobby della finanza ed economia internazionale: la banca vicentina verrà posta “in svendita” a prezzi stracciati e chi farà man bassa delle azioni potrà non solo speculare, ma anche controllare una quota del risparmio e del credito del Veneto. E’ noto che le aziende venete sono sottocapitalizzate: chi tiene le chiavi del credito può determinare il successo o il fallimento non solo di una azienda ma anche di un territorio. E di questo bisogna esserne tutti consci: il credito è necessario in un sistema capitalistico, è strumento di crescita come arma di distruzione di massa.
La forza delle banche locali, delle Popolari come del Credito cooperativo stava nella loro capacità di conoscere il territorio, nel capire le esigenze dell’imprenditore, le sue potenzialità e bisogni. I funzionari di un tempo e le banche locali non prendevano le cantonate che gli attuali manager del mondo bancario collezionano: negli ultimi quattro anni il credito alle imprese in Italia è diminuito di 90 miliardi e contestualmente le sofferenze sulle imprese sono passate da 59 a 138 miliardi. Il sistema creditizio è malato e il suo male può contagiare l’economia reale colpendo non già le grandi imprese ma la rete delle Pmi e le famiglie.
Le vicende di questi ultimi anni, le grandi manovre e i grandi appetiti sulle banche locali, la parabola della Popolare di Vicenza, i sospetti di aggiotaggio di cui si parlò ad inizio anno sulle nuove norme relative alle Popolari e il Credito Cooperativo che avvantaggiarono pochi a danno dei più e via dicendo, ci dicono innanzitutto che sarebbe necessario ritornare alla vecchia divisione tra banche commerciali e banche d’affari: lo Glass-Steagall Act, che nel 1933 impose questa distinzione negli Usa, fu la strada scelta dal Congresso statunitense nel settore creditizio per uscire dalla crisi del 1929 e la sua abolizione nel 1999 ha spianato la strada al modello di banca attuale che tutto è tranne che trasparenza, assenza di conflitti di interessi, servizio alla società. Non distinguendo più tra banca commerciale e banca d’affari il rischio cade tutto sull’economia reale, sulle piccole imprese, i consumatori, i risparmiatori. Ritornare a quella divisione è necessario come è necessario avviare un profondo dibattuto sul sistema del credito locale e la sua salvaguardia in un tessuto socio-economico che vive della piccola e media impresa, sulle famiglie, il piccolo risparmiatore, cioè di quel segmento con cui le grandi banche universali non sanno dialogare e la cui inventività, capacità di superare i problemi, fare e sopportare sacrifici sfugge ai più sofisticati algoritmi e al più complesso dei software bancari.