Sorprende che nell’analisi sul voto catalano nessun commentatore si sia soffermato sulle ragioni della vittoria degli indipendentisti e si sia limitato a una lettura superficiale del fenomeno. Nessuno ha voluto ammettere che Barcellona è il capolinea dello stato-nazione di impianto centralizzato che ha chiuso il suo ciclo di vita, perché non è più funzionale alle esigenze di una economia e società moderna in cui gli apparati pubblici devono essere gestiti con efficienza ed economia.
Diversamente da Londra, dove con un processo devolutivo dei poteri alla Scozia si cerca di gestire una transizione necessaria, Madrid ha minacciato i catalani prospettando scenari apocalittici, promettendo punizioni esemplari: nei catalani le ferite del franchismo sono ancora aperte e le manifestazioni dell’autoritarismo hanno fatto scattare immediatamente gli anticorpi della democrazia. Infine, la campagna elettorale anticatalana grottesca, segnata da una povertà disarmante di idee e proposte, emblematica di uno stato giunto alla fine della sua storia.
Si sprecano i distinguo con la situazione dell’area padana e del Veneto per esorcizzare la diffusione del contagio, in una sorta di rimozione psicanalitica con cui scacciare un pensiero inaccettabile: il fallimento dello stato-nazione, l’insostenibilità non solo economica di uno stato inefficiente. Lega o non Lega, prima o poi i conti con questa realtà bisognerà farli perché non è questione di populismo di basso livello: oltre alla crisi dello Stato nazione c’è in Italia una situazione devastante, con la malavita in grado di controllare intere Regioni e gestire persino la città capitale in cui corruzione e inefficienza raggiungono i massimi livelli. Il caudillismo di Renzi e il neocentralismo non sono la soluzione, ma l’ultima fase di una malattia degenerativa specifica del sistema italiano.
Con questo voglio dire che ogni realtà fa storia a sé e giustamente i catalani prendono le distanze dal caso italiano per cui è improprio stabilire dei paralleli. Il popolo catalano è giunto al risultato di domenica dopo un lungo percorso identitario in cui sono state recuperate e rinsaldate le basi dell’identità, a iniziare dalla valorizzazione della lingua e dall’insegnamento della storia catalana nelle scuole e università: anche attraverso una stampa e mass media in lingua catalana, e diversamente da noi Veneti, i Catalani conoscono la loro storia, sanno di poter svolgere un ruolo come nazione, sanno di essere un popolo e di avere una precisa identità. Questo sentimento è determinante nell’anteporre ad ogni altra considerazione il valore dell’unità della Catalunya: la bandiera nazionale, la Senjera, è simbolo di tutti, non appartiene a nessuna forza politica o culturale. La fresca memoria delle persecuzioni franchiste, poi, ha reso impermeabili le forze indipendentiste alle infiltrazioni di agenti provocatori e ai tentativi di inoculare nel movimento fattori di divisione e frammentazione.
In Catalunya non ci sono indipendentisti più indipendentisti di altri e, per quanto il movimento sia attraversato da diverse formazioni , tutti rinunciano a protagonismi che mettano a rischio il risultato finale. Nessuno antepone il proprio piccolo successo alla affermazione comune e alla litigiosità di piccoli concorrenti si è sostituita la concordia nella costruzione del futuro. L’intuito popolare, poi, ha messo e mette fuori gioco personaggi poco chiari, figure meschine e seminatori di zizzania. Per questo domenica 27 settembre si è chiusa una pagina di storia iberica e se ne è aperta un’altra a cui tutti dobbiamo guardare con molta attenzione e partecipazione: a Barcellona in questi mesi si sta scrivendo la Storia difendendo la democrazia nel tentativo nobilissimo di quadrare il cerchio, per dirla con Dahrendorf, tra benessere, coesione sociale e libertà individuale.
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