Non dico un esponente del governo, ma anche il meno esperto tra i pubblici amministratori locali non avrebbe mai azzardato la tesi per cui tutte le Regioni sono protagoniste della Riforma delle Province eccezion fatta che per il Veneto, come ha sostenuto invece il sottosegretario di stato Gianclaudio Bressa. A smentire l’esponente del governo non è il sottoscritto, assessore regionale agli Enti locali del Veneto, ma la Corte dei Conti con la sua deliberazione n. 17 del 30 aprile scorso resa nota il 13 maggio. A pagina 22 della delibera della Corte che tratta del Riordino delle Province leggiamo: “Per un gruppo di Regioni (Piemonte, Veneto, Abruzzo, Campania, Molise e Basilicata) i progetti di legge approvati non operano un immediato riordino delle funzioni non fondamentali, facendo rinvio a successivi atti finalizzati ad una puntuale individuazione ed assegnazione di beni e risorse derivanti dalla nuova allocazione delle funzioni”. In altre parole, per la Regione del Veneto non basta infatti dire chi fa cosa, vogliano dire anche dire con quali fondi certi si faranno le cose – e si pagheranno gli stipendi – senza andare a pregiudicare le risorse già destinate a funzioni fondamentali e servizi strategici ad iniziare dalla sanità.
Il Veneto non è in ritardo e la scorrettezza anche istituzionale, oltre che sostanziale, dell’intervento del sottosegretario non trova motivazione né fondamento. Come spiega la Corte dei Conti un rallentamento c’è soprattutto a livello nazionale perché molte Regioni, Veneto compreso, stanno operando con prudenza e con la diligenza necessaria quando si ha a che fare con decine di migliaia di posti di lavoro messi a rischio non dalle Regioni ma da una norma, a dir poco confusa e contraddittoria, approvata dal Parlamento.
Checché ne dica Bressa, lo scenario attuale, come sottolinea la Corte dei Conti, sconta il mancato coordinamento tra la riforma Delrio, la Legge di stabilità 2015 e il cosiddetto decreto Milleproroghe. Si aggiunga, parlando dei dipendenti, che il decreto sulle tabelle di equiparazione, atteso almeno da sei anni, con il quale si permetterà il trasferimento verso lo Stato di una quota dei dipendenti provinciali, ha superato l’esame della Conferenza unificata, con le Regioni che hanno fatto la loro parte. Purtroppo, come spesso accade in Italia manca ancora il provvedimento governativo che fissi i criteri per la mobilità che si attende per altro a ore.
Per la Riforma delle provincie si avvera quanto la stessa Corte aveva previsto ancora nel novembre del 2014 analizzando l’allora proposta di riforma delle Provincie avanzata dal governo Renzi: basse possibilità di risparmio per gli enti e rischio di confusione amministrativa. Zero risparmio per i cittadini.
La proposta del governo, in altre parole conteneva in sé il pericolo concreto di uno scenario transitorio conflittuale e prolungato in cui, diceva la Corte, “si perpetuerebbe una situazione di confusione ordinamentale certamente produttiva di inefficienze”. Tutto ciò si è avverato con la complicazione del guazzabuglio della Legge di stabilità 2015 che mette a rischio l’equilibrio dei conti provinciali senza dare certezze a chi dovrà sostituire le province nell’espletamento di una serie di funzioni. Il governo non volle ascoltare il magistrato contabile e il tentativo maldestro, questo sì chiaramente di matrice propagandistica elettorale, di scaricare su forze sindacali o sulla Regione del Veneto responsabilità, che in realtà non hanno è evidente quanto scorretto e sconcertante.